Molto spesso c’è un vuoto di comunicazione e di conoscenza reciproca, che porta a dei malintesi profondi che penalizzano la collaborazione scuola-famiglia e incidono negativamente sulla cosa più importante: la complicità nella cura e nella educazione dello studente autistico.
Nelle mie esperienze di insegnante, blogger e responsabile di un’associazione, dalle quali ho ricevuto confidenze e informazioni da tanti colleghi e genitori, ho capito che dinamiche sbagliate e controproducenti sono più frequenti di quanto possiamo immaginare: a) la famiglia, a volte, ha aspettative talmente alte sul lavoro (e sui risultati) della scuola che può non rendersi conto di “scaricare” sull’insegnante di sostegno o sul corpo insegnanti una responsabilità eccessiva, che può provocare ansia e disagio, fino a chiusura e distacco; b) l’insegnante di sostegno o il corpo insegnante può inizialmente non avere le competenze per affrontare un alunno nello spettro e, invece di aprirsi e palesare sinceramente le sue esigenze formative, si chiude a riccio e mette la famiglia a distanza, dando la sensazione di credere di essere autoreferenziale e quindi di non sentire l’esigenza di collaborare.
L’alunno nello spettro deve essere sempre al centro e la sua cura ed educazione sempre l’obiettivo primario del contatto tra scuola e famiglia. Lo è con studenti neurotipici, deve esserlo in modo diverso con studenti con bisogni speciali.
Riflessione: l’autismo è una condizione complessa, che nessuno, ma proprio nessuno può affrontare da solo. Solo un lavoro di team può fare la differenza; bisogna costruire relazioni scuola-famiglia serene, sincere, aperte; è fondamentale “mettere sul tavolo” i problemi senza nasconderli e soprattutto senza sentirsi inadeguati se non siamo stati subito in grado di risolverli; è necessario trovare insieme le soluzioni.
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